Il laboratorio Sguardi sui Generis nasce all'Università di Torino nel 2010 con l'intento di costituire uno spazio di discussione e crescita sulle questioni di genere. Un contenitore aperto, dunque, che si pone il duplice obiettivo di approfondire la formazione teorica e di favorire, al contempo, l'affermazione di una soggettività collettiva capace di confrontarsi e intervenire sulle problematiche di genere più attuali.

venerdì 1 giugno 2012

Quaderni di San Precario n.3 - con un contributo del laboratorio


E' stato pubblicato il terzo numero dei Quaderni di San Precario dal titolo 'Io non ho paura del default', un lavoro lungo ed articolato di analisi della fase attuale che ha visto anche la partecipazione del Laboratorio.

Di seguito alleghiamo il nostro contributo, che troverete a pagina 155 dei quaderni, la versione integrale è disponibile in formato .pdf  su molti siti fra i quali www.quaderni.sanprecario.info/ e www.uninomade.org.

RESISTENZE FLESSIBILI.
Riflessioni a proposito di genere e precarietà.

Ci sono lotte, pratiche, teorie che vengono espulse dal dibattito socio-politico non appena sembrerebbero aver esaurito la propria iniziale carica contestataria. Presentandone le rivendicazioni come conquiste ormai assodate, le discorsività mainstream mirano a derubricarle dall'agenda dell'attualità, a banalizzarne il portato eversivo, riassorbendolo in una ripetizione dell'esistente in versione riveduta e corretta. Pian piano la lettura del reale di cui esse sono portatrici viene dipinta come obsoleta e superata, ogni prosecuzione della lotta diventa isterismo fuori tempo massimo. Il senso comune le relega nel ripostiglio ideologico del dato di fatto sul quale non è più necessario interrogarsi e, sul solco di questa evidenza, si può comodamente cominciare a dimenticare.
    Se dichiarare la vittoria di una lotta equivale spesso ad auspicarne l'esaurimento, non è peraltro escluso che il dibattito politico non decida di resuscitarla strumentalmente prima o poi. Viviamo in equilibrio fra un mondo che sembrava non aver più bisogno dei femminismi ed una classe dirigente che non disdegna di avvalersene, di tanto in tanto. All'occorrenza, infatti, il sessismo e la discriminazione vengono proiettati e incarnati nell'altro e nell'altrove, rivendicando per sé il patrocinio delle discorsività emancipative e la necessità morale di diffonderle. Così, mentre una presunta “uguaglianza di fatto” viene data per scontata nella vita di tutti i giorni, sulle categorie di genere e sessualità vengono erette le fondamenta ideologiche dell'imperialismo globale e delle guerre islamofobiche, la legittimazione di politiche razziste e discriminatorie in materia di immigrazione. In Italia, inoltre e in modo perculiare, la legittimazione morale e politica dei partiti di opposizione condensa sul corpo del sovrano e sulle sue abitudini sessuali l'ipostasi stessa del sessismo – come se quest'ultimo non fosse, invece, il risultato di una microfisica di pratiche assoggettanti storicamente trasversali ad ogni governo e a buona parte del corpo sociale.
Parallelamente, al traino dell'agenda politica, i media diffondono una versione addomesticata del femminismo, epurata da ogni elemento di conflittualità sociale.
    In questo scenario, non soltanto va problematizzato e discusso il potere divulgativo dei processi di mainstreaming, ma risulta necessario interrogarsi su quanto una versione aproblematica e unidirezionale del femminismo –  slegata cioè da una contestualizzazione socio-politica più ampia – possa offrire una sponda ad ogni tipo di strumentalizzazioni. Non a caso, fra i collettivi di genere e nel dibattito contemporaneo comincia a farsi strada l'esigenza, da un lato, di inchiestare l'immaginario legato alla parola femminismo, dall'altro, di interrogarne il senso, di problematizzarlo. La questione non è da porsi nei termini di cosa sia “veramente” femminismo oggi, bensì di come districare le pratiche di genere dai rischi della costruzione strumentale e unidirezionale, della banalizzazione fuorviante, quando non del vero e proprio branding a scopo commerciale − quello che è stato efficacemente definito femminismo™.

    Nel suo libro La donna a una dimensione, Nina Power critica la funzione attribuita alla “rappresentazione” nelle lotte e nelle rivendicazioni di genere. L'integrazione di donne, omosessuali, membri di minoranze etniche attraverso l'istituto della rappresentanza – pur apparendo un riconoscimento del diritto all'autodeterminazione di tali individui – si fonda in realtà su argomentazioni fortemente assimilazioniste, piegando l'identità culturale, etnica o di genere di questi soggetti a puntello dell'agenda politica egemone. Più semplicemente: “l'accesso delle donne o di membri delle minoranze etniche a posizioni di potere non conduce all'automatico miglioramento della vita delle donne o delle minoranze etniche in generale – certamente non è quanto accaduto”1.
    L'idea che l'elezione di una donna, a prescindere dal suo programma politico, possa giovare ad un genere in quanto tale è effettivamente alquanto bizzarra ed è comprensibile solo dal punto di vista di una battaglia condotta sul piano strettamente identitario. Se di certo nessuno si sognerebbe mai di pensare che l'ascesa ad una carica pubblica di un uomo sia presupposto necessario e sufficiente al benessere del genere maschile, sembrerebbe che l'integrazione partecipativa all'ordine istituzionale dell'esistente debba costituire, per il genere femminile, un'attestazione irrinunciabile di esistenza: mi rappresentano dunque sono. In questo caso il rapporto fra il rappresentante e il rappresentato non si costruisce sul campo politico di un'effettiva assonanza in termini di rivendicazioni, quanto su quello identitario dell'essere donna in quanto tale, come condizione slegata da ogni ulteriore contestualizzazione. La rappresentazione sembrerebbe spostarsi così dal terreno politico a quello linguistico e simbolico, dove il soggetto in carica non è tanto espressione di una maggioranza veicolata dal voto, quanto segno di un significato più vasto (per dirla con la Power, “emblema”). L'individuazione di questi meccanismi di costruzione emblematica del soggetto-donna (o del soggetto-omosessuale, del soggetto-arabo, del soggetto-nero) se, da un lato, consente la messa a critica del dispositivo rappresentativo nella sua pluralità e democraticità solo apparente, dall'altro ci fornisce una chiave di lettura più vasta della percezione diffusa che accompagna i processi di soggettivazione delle donne. Che i rapporti fra la parte e il tutto siano evocabili in termini di rappresentazione emblematica rivela infatti il grado elevato di tipizzazione di cui è fatta oggetto l'alterità. Mentre, nel sentire comune, quest'ultima sembra interessata da una puntuale riduzione all'uno che sostituisce all'autodeterminazione come scelta e posizionamento l'alterità come dato, l'uso strumentale del genere come assoluto, sul quale non si costruiscono ulteriori campi di forza, risulta funzionale alla rimozione o polarizzazione delle conflittualità e disparità sociali. Sotto l'egida della difesa dei diritti delle donne, non solo le parti più disparate si sentono convocate a parlare, ma ogni discorsività può essere formulata nei termini dell'universalità e dell'induttività (“se vale per una, vale per tutte”). In Italia di recente abbiamo visto all'opera un meccanismo simile quando, in seguito alla pubblicazione delle intercettazioni che portarono alla ribalta il cosiddetto Rubygate e gli scandali sessuali del premier, in molti – cattolici, finiani, Pd, Cgil e una parte del movimento nascente – si sono ricomposti sotto lo slogan della difesa della dignità delle donne. Che questa fosse stata messa in dubbio, d'altronde, non sembrava contestabile nemmeno per molte italiane che, rispondendo al martellare degli appelli (“Dove siete, ragazze?”) e mettendo in campo tutta la dimensione performativa di una morale pubblica, si decidevano a riempire le piazze per testimoniare la propria “diversità”. In quella sede cercammo di sottolineare quanto il dato preoccupante non fossero le abitudini sessuali del premier, né l'esistenza di ragazze spregiudicate e bramose di potere, quanto proprio questa percezione diffusa che tutto ciò fosse lesivo della dignità delle donne (e solo loro). Per un paradossale rovesciamento della dinamica una-molte (o meglio una-tutte) tipica dello stesso meccanismo rappresentativo, l'esistenza di escort disposte a mercificare la propria sessualità sembrava sufficiente a mettere in dubbio l'intelligenza, la forza, la “dignità” di metà della popolazione italiana, quando non la sua stessa presenza nella sfera degli attori sociali (“Dove siete?”, appunto). Anche qui il paragone vale ad evidenziare la paradossalità di certe generalizzazioni: forse che qualcuno, fra gli italiani, sia stato invitato a mettere a valore la propria diversità nel caso la vita da papponi e magnaccia della sua classe politica gliela avesse fatta dimenticare?
    Che l'attestazione di soggettività fosse percepita come revocabile ad un genere in quanto tale sulla scorta del comportamento di alcune sue appartenenti, ci sembrava indicativo della fragilità di un riconoscimento dell'altra/o fondato sulla sua adesione ad un determinato paradigma emancipativo, socialmente adeguato. Per una logica intrinsecamente discriminatoria, non soltanto il rapporto sussistente fra le donne oggetto di scandalo e la globalità del genere femminile veniva formulato nei termini della rappresentazione deformante, ma la stessa pluralità dei percorsi di autodeterminazione era sostituita dal ruolo stereotipato di una presunta “donna per bene” che, scendendo in piazza col suo bravo cartello rosa, si contrapponeva alla decadenza umana e morale di cortigiane e puttane. Alla costruzione esclusiva del genere (o sante o puttane) si accompagnava quella unidirezionale e monoidentitaria che, abolendo ogni ulteriore determinazione in termini di razza, ceto, classe, orientamento sessuale, riduceva le soggettività al minimo comune denominatore del loro genere.
    Un ordine del discorso simile mirava ad esorcizzare il rischio che la mobilitazione nascente intercettasse qualunque rivendicazione sociale e politica più ampia. Sgomberato opportunamente il campo da voyerismo e indignazione, ad una lettura critica che collocasse i soggetti e gli eventi di cui erano protagonisti nelle relazioni materiali e sociali che li avevano prodotti, gli avvenimenti della corte di Arcore – dietro l'aura di eccezionalità scandalistica e gossippara di cui erano stati ammantati – avrebbero mostrato, in versione iperbolica e paradossale, tutte le contraddizioni e disparità di un intero modello lavorativo/esistenziale. Le ragazze che si prostituivano ad Arcore, infatti, cos'altro incarnavano se non quel modello di autoimprenditoria propagandato dall'ideologia di governo e adottato a fondamento delle politiche in materia di welfare e lavoro?
Nel suo Libro bianco il ministro Sacconi ne aveva di recente fornita la più lampante sistematizzazione con l'encomio di un modello reddituale e welfaristico fondato sull'individualismo proprietario: ognuno è imprenditore di sé, ognuno ha il compito di farsi carico dell'espletamento dei propri bisogni sociali di base, le condizioni di vita materiali dei singoli dipendono dall'impegno soggettivo, a prescindere da qualunque asimmetria di partenza fra i soggetti sociali in campo. La stessa asimmetria fra lavoratore e datore di lavoro veniva rimossa a vantaggio di un modello di scambio alla pari, individuale e privato. In questo quadro le ragazze di Arcore non rappresentavano un'eccezione, bensì l'incarnazione letterale di un modello propinato ad un'intera generazione: autopromozione/autoimprenditoria e rimozione delle asimmetrie di potere (inclusa quella col “datore di lavoro” in relazione alla prestazione fornita). Le più recenti dichiarazioni delle escort coinvolte ai festini (ci riferiamo all'intervista a Terry de Nicolò2) non fanno che confermarci nell'idea che la visione del mondo esplicitata fosse proprio quell'individualismo sociale e proprietario alla Sacconi condotto alle sue estreme conseguenze e rideclinato in un vero e proprio homo homini lupus. Inoltre, nel contesto di una sempre crescente messa a valore capitalistica della sfera del “privato”, della dimensione relazionale e comunicativa, quando non di elementi afferenti più esplicitamente al bios (pensiamo alla voce per i/le lavoratori/trici di call center, all'esistenza stessa per le badanti), la vendita del proprio corpo non poteva essere letta, moralisticamente, come fenomeno decontestuale. Risulta dunque evidente quanto le contraddizioni evocate dallo “scandalo” in corso si collocassero su un piano ben più ampio di quanto Repubblica o l'opposizione non riuscissero o volessero tematizzare, investendo un più globale contesto di esaurimento delle possibilità di autodeterminazione dei singoli e delle donne in primis.
    Da un lato, infatti, il modello di welfare sacconiano a costo zero aveva come diretta (ed esplicitamente auspicata) conseguenza, la valorizzazione delle relazioni di prossimità e del mutuo soccorso familiare (cioè di quel lavoro riproduttivo storicamente attribuito alle donne) per colmare – assieme alla privatizzazione dei servizi − lo smantellamento di un welfare pubblico “assistenzialista”3. Dall'altro, l'orizzonte produttivo e di politiche lavorative entro cui queste stesse donne si muovevano tendeva a preservare tutte le disparità fra i generi (salari più bassi, assenza di politiche di conciliazione, contratti più precari), pur in presenza di un meccanismo economico fondato sulla valorizzazione esplicita della dimensione qualitativa del lavoro riproduttivo (relazionalità, cura, flessibilità,) e di coloro che ne sono tradizionalmente portatrici.
    Il tentativo di recupero istituzionale di quella mobilitazione nascente da parte di un'opposizione che, fomentando l'“indignazione”, mirava a procurarsi una passerella politica ed elettorale, si rivelava solo parzialmente riuscito nella dimensione in cui una fetta del movimento si mostrava irriducibile alla semplice equazione anti-berlusconismo = anti-sessismo in cui si cercava di incanalarla. Le contraddizioni in atto avevano piuttosto a che fare con una molteplicità di condizioni di minoranza e sovradeterminazione che non potevano essere tematizzate senza collocare il genere entro quella pluralità di campi di forza politici, economici e di disuguaglianze sociali che contribuiscono a situarlo e che sulla leva del genere si costruiscono. Contro ogni lettura “isolazionista” − che fondasse cioè le rivendicazioni anti-sessiste nel vuoto ideologico di un agnosticismo politico opportunamente condito da una sfiducia rivolta ad personam – appariva sempre più urgente la necessità per le discorsività e le lotte femministe di intercettare le questioni del reddito, del welfare, del lavoro nella loro attuale configurazione come dispositivi polarizzatori di disparità; di analizzare, cioè, la complessità di intrecci e stratificazioni assoggettanti che lega il genere alla precarietà, come condizione sistemica ed esistenziale; in poche parole, di praticare quell'intersezionalità delle lotte (relazionando genere, classe e razza) auspicata dal femminismo post-coloniale che, essa sola, poteva dar conto della compresenza di dispositivi vecchi e nuovi di sfruttamento e di sovradeterminazione.
Se il discorso vale come presupposto metodologico, è dunque dentro le trasformazioni del capitalismo globale e delle sue ricadute in termini di politiche nazionali che va ricercato il senso di una pratica femminista sorvegliata, cioè consapevolmente alle prese con i tentativi di recupero delle sue istanze più radicali. Con le parole di Nina Power: “Non è possibile analizzare l'attuale situazione delle donne senza procedere a un'analisi della forma del lavoro. L'inclusione delle donne nella forza-lavoro ha portato a inedite mutazioni del modo in cui intendiamo il loro «ruolo», la loro capacità a condurre una vita indipendente e, più in generale, la loro partecipazione all'economia”4.
    Se nel passaggio dal lavoro domestico al lavoro produttivo i rapporti fra i generi sono certo mutati, si sono riconfigurati, è nel solco della sussunzione dell'emancipazione lavorativa dentro i meccanismi di valorizzazione capitalistica che questa mutazione va letta. Come scrive Cristina Morini, oggi “il genere non rappresenta più solo un elemento di oppressione”: è diventato “uno dei cardini dello sfruttamento contemporaneo”5. L'orizzonte è dunque quello che, sempre la Morini, ha definito di “femminilizzazione del lavoro”: da un lato, l'immissione crescente di forza-lavoro femminile nel mercato e in particolare nel settore terziario, dall'altro la generalizzazione di un paradigma economico che estrae profitto dalle qualità del lavoro riproduttivo. Relazione, comunicazione, flessibilità, cura (quel trasferimento della “relazione madre-figlio che, praticamente, non ha confini di tempo e dedizione all'interno del lavoro professionale”6) sono dunque le caratteristiche dell'odierno lavoro femminilizzato, così come le modalità retributive e contrattuali del lavoro femminile (precarietà, bassi salari e mobilità) tendono ad essere estese anche al genere maschile.
    Il paradigma della donna manager che, come ricorda la Power, sorride dall'alto di un cartellone pubblicitario, lungi dall'incarnare un modello di emancipazione, è dunque l'emblema di un processo di concentrazione della ricchezza che costruisce sul genere la propria immanenza nel corpo sociale attraverso dispositivi di valorizzazione e controllo. Mentre le donne incarnano ed esperiscono la condizione stessa della precarietà sociale, quest'ultima si struttura a partire dalla sussunzione della differenza del femminile. Tutto questo i femminismi non possono dimenticarlo: ogni costruzione di rivendicazioni che non tenga conto di questo intreccio, di questa complessità corre il rischio di sottostimare la molteplicità di dinamiche di assoggettamento/assimilazione che interessano il genere, quando non, peggio ancora, di risultare apologetica o funzionale rispetto ad un ordine dato.
    Indagare la condizione delle donne oggi vuol dire perciò attraversare quella pluralità di livelli di precarizzazione dell'esistere che le interessano. Se il contesto lavorativo in cui si muovono è prevalentemente caratterizzato dall'abbattimento delle distinzioni fra produzione e riproduzione, esse rimangono per lo più le uniche addette, nella sfera familiare, a quel lavoro domestico e di cura non retribuito che al capitale fornisce una risorsa indispensabile.
    A fronte di un simile stato di cose non è difficile riconoscere come le donne risultino doppiamente colpite dalla compressione dei salari, dallo smantellamento dei servizi di welfare e dalla deregolamentazione del mercato del lavoro conseguenti alle politiche di austerity e tagli della crisi finanziaria. La manovra varata a metà settembre sembra accanirsi con una ferocia tutta particolare − e nel silenzio più assoluto – sulla metà femminile del paese. Le donne infatti, rappresentando una percentuale elevata dei dipendenti pubblici, si sono viste contrarre i redditi attraverso il blocco del rinnovo dei contratti, dei trattamenti economici integrativi e degli scatti di anzianità per gli insegnanti; come se ciò non bastasse, il fondo ricavato dall'innalzamento dell'età pensionabile femminile nel settore pubblico e destinato dal governo alle politiche di conciliazione è letteralmente sparito. L'innalzamento della soglia pensionistica per le lavoratrici del privato e i tagli dei trasferimenti agli enti locali (con le conseguenti ricadute sul piano dei servizi) completano il quadro di una “stabilizzazione finanziaria” che sembra edificata sulla somministrazione coatta di lavoro domestico e produttivo alle donne.
    Se questo ci consolida nella certezza che, nonostante la retorica dei “sacrifici per tutti”, il capitalismo finanziario continui a trovare nello sfruttamento/valorizzazione delle disuguaglianze i propri agenti stabilizzatori, non possiamo non rilevare come all'interno di queste disuguaglianze la differenza di genere continui a rappresentare un ricco bottino, oltre che il capro di una espiazione sociale della colpa-debito che, in fondo, mette d'accordo tutti. Non a caso, a fronte di un simile attacco, le uniche obiezioni sollevate dall'opposizione ruotavano attorno alla famiglia come soggetto unico (e univoco) da tutelare, misconoscendone ogni differenziazione interna di carichi lavorativi e opportunità esistenziali. Se questo va a riprova del disinteresse nei confronti delle condizioni delle madri-lavoratrici, è anche opportuno sottolineare come la difesa della famiglia in quanto soggetto sociale ultimo tenda a tagliare consapevolmente fuori tutte quelle relazioni non riconducibili nell'alveo della famiglia nucleare eterosessuale e con esse l'idea stessa di un soggetto sociale che possa costituirsi come tale a prescindere dalla dimensione “istituzionalizzabile” dei legami affettivi e parentali; in altri termini, è esclusa l'idea di una donna che non sia madre, moglie, figlia, di soggetti GLBT come attori sociali non riducibili a funzioni derivate di una norma. Tutto ciò dimostra come, pur in assenza di qualunque politica di conciliazione fra lavoro e famiglia, sia sempre a quest'ultima – e alla sua composizione eterosessuata, fondata sul lavoro di cura femminile − che si fa più o meno implicitamente riferimento per colmare l'assenza di un adeguato sistema di welfare.
    I tagli agli enti locali e la riduzione dei servizi, oltre a colpire quell'elevata percentuale di donne che in questo settore trovano una possibilità occupazionale, fanno leva proprio su questa possibilità di aumentare esponenzialmente il lavoro domestico e riproduttivo. Lo stesso modello di welfare sacconiano fonda la riduzione dei costi e dell'intervento statale sul binomio mutuo soccorso familistico e sussidiarietà fra pubblico, privato e volontariato. Se le implicazioni del primo termine sono presto traducibili nell'incremento del lavoro non retribuito a carico delle donne, un esempio emblematico di sussidiarietà realizzata è il percorso di legge che in Piemonte, a partire dalla Delibera Ferrero, introduce i volontari anti-abortisti del “Movimento per la vita” nei consultori, in regime di indifferenza rispetto agli operatori professionali. Il discorso è solo apparentemente fuori traccia nella misura in cui la ristrutturazione dei processi di sicurezza sociale si incardina anche qui sulla spinta alla precarizzazione biologica e alla labilizzazione dei margini di autonomia esistenziale delle donne.
    Il contesto attuale è perciò caratterizzato dalla compresenza di una molteplicità di dispositivi assoggettanti, vecchi e nuovi. Se, da un lato, il femminismo è chiamato a tener conto di quelle dinamiche di assimilazione e valorizzazione capitalista che proprio a partire dalla differenza di genere si costruiscono, dall'altro, l'oppressione di tipo tradizionale, legata al controllo esercitato sui corpi e al ruolo attribuito nella sfera parentale (e dunque alla costruzione eterosessuata del genere), non sembra un elemento di un passato ormai lontano. Anzi verrebbe da dire che l'assegnazione alle donne di lavoro riproduttivo non retribuito sia diventato una voce di bilancio fondamentale per la politica nell'era della crisi finanziaria.
    “Dove sono le donne in tutto ciò?”, ci si interroga in numerosi articoli, editoriali e commenti. Anche in questo caso, lungi dal voler simulare uno stato di mobilitazione assente o dal non esserci mai domandate su che pianeta siano volati i palloncini rosa di “Se non ora, quando?”, ci sembra che dietro questo tipo di domande si annidi la tendenza a parlare delle donne come di un soggetto sociale a comparsa, che irrompe periodicamente con le sue rivendicazioni per poi sparire nel buio. Quel buio non rappresenta ai nostri occhi l'incarnazione di un silenzio-assenso nei confronti del presente, quanto piuttosto la disattenzione di quanti intravedono il peso sociale e rivendicativo delle donne esclusivamente nelle battaglie condotte sotto la bandiera del genere e mai nelle pur cospicue presenze femministe e di genere che caratterizzano le lotte sociali.
    Le donne, per parte loro, sono lì dove sono sempre state: non soltanto incardinate nei meccanismi produttivi e riproduttivi di un contesto sociale dato, ma anche alle prese col bisogno di reinventare globalmente la propria condizione, dove quel globalmente indica proprio l'impossibilità di disgiungere la lotta per la libera determinazione di sé dalla necessità di trasformazioni sistemiche. Nelle proteste contro l'austerity e nella rivendicazione di un reddito di base incondizionato, che introduca una forma di compensazione di tutto il lavoro produttivo e riproduttivo non pagato che è loro richiesto, nelle lotte per i beni comuni e per il no al Tav, per contrastare le politiche di espropriazione dei commons e di precarietà ambientale e territoriale, nelle battaglie contro un servizio socio-sanitario semiprivato o fondato sul volontariato, per l'autodeterminazione e la libertà di scelta in tema di maternità, affianco alle lotte dei migranti, contro le politiche securitarie costruite sulla retorica della difesa delle donne, noi riteniamo che il femminismo possa trovare il terreno di espressione del proprio portato di alternativa e resistenza all'ordine costituito della società. In primo luogo, perché le sfide in campo hanno, appunto, a che fare con la generalizzazione di un modello di sfruttamento del portato esperienziale storico femminile che non può essere affrontato se non a livello sistemico, dunque congiuntamente a quelle spinte costituenti dal basso che si stanno dando nei movimenti sociali. In secondo luogo, perché riteniamo che leggere il genere isolatamente, senza tener conto dei campi di forza sociali e razziali che sul genere si costruiscono, vuol dire correre il rischio che la lotta delle donne risulti avulsa o (perché no?) antagonista ad una reinvenzione più radicale dell'ordine dell'esistente. Di contro, la possibilità di leggere la propria condizione alla luce delle molteplici stratificazioni di precarietà che la interessano (lavorativa, domestica, biologica, territoriale) può rendere  le donne segno tangibile di una tendenza all'esaurimento delle possibilità di autodeterminazione che interessa tutto il corpo sociale, e dunque riserva critica di radicalità.
Perché, come ricorda la Power, l’“unidimensionalità” delle donne non è un destino ma una scelta indotta e il femminismo è di fronte a noi, non dietro di noi.

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